Compartecipazione

La mobilità è fisiologica perché funzionale all’equilibrio sociale… Una società cristallizzata nella sua distribuzione territoriale non sopravviverebbe a lungo e, in ogni caso, sopravviverebbe male (Livi Bacci)

Le aree rurali italiane sono attraversate da dinamiche di cambiamento in virtù dei processi migratori. La presenza straniera, è in crescita e porta con sé problematiche e opportunità che necessitano di essere affrontate con lucidità e accuratezza.

Il diverso, da che mondo è mondo, genera curiosità e insieme paura. Oramai sappiamo fin troppo bene che dalla paura nasce diffidenza, razzismo, violenza, discriminazione, oppressione…

La curiosità porta all’incontro, fa dialogare storie e culture, fa nascere idee e azioni originali e concrete, fa rivivere aree spopolate, crea nuove opportunità economiche e sociali.

Queste dinamiche sono presenti soprattutto nelle aree agricole, dove la gran parte delle persone straniere che incontriamo ogni giorno lavora nei campi per raccogliere proprio quel cibo che poi ritroviamo sulle nostre tavole.

Troppo spesso i fenomeni migratori sono considerati come “senza storia” e schiacciati sul presente, dando luogo a semplificazioni pericolose e fuorvianti e ad un approccio perennemente emergenziale. Possiamo considerare le migrazioni come effetti di fattori favorizzanti l’emigrazione da una parte e l’immigrazione dall’altra (i cosiddetti fattori push-pull) come la povertà, la guerra o i cambiamenti          climatici. Ma un’analisi del fenomeno più pertinente e rispettosa della dignità delle persone, sia dell’attuale immigrazione che dell’emigrazione che ha caratterizzato il Sud Italia in passato, ci porta a considerare variabili più ampie sulle origini individuali delle partenze di chi emigra: chi parte non si muove necessariamente ed esclusivamente alla ricerca di migliori condizioni salariali, ma si sposta anche per migliorare il proprio status, per soddisfare aspettative che non sono soltanto economiche, bensì pure esistenziali; e pertanto la decisione di partire viene presa in seguito a una scelta consapevole, operata in base alle differenti opzioni disponibili. In questa chiave di lettura, le persone diventano attrici di un cambiamento non perché schiacciate da condizioni strutturali che ne obbligano il movimento, ma perché sono spinte verso un miglioramento della propria condizione. Non tutti gli abitanti e le abitanti dei territori da cui si parte hanno infatti scelto di emigrare e per questo l’emigrazione può essere inquadrata come una scelta consapevole, operata da alcun* e non da altr* in base a discriminanti fondamentali, fra le quali i fattori push-pull hanno un peso importante, ma non determinante.

L’insistenza sulla scelta e sul protagonismo delle singole persone consente inoltre di dare più importanza alle persone che emigrano come protagoniste delle trasformazioni sociali e non come semplici spettatrici. Lo storico Franco Ramella insiste ad esempio sulla necessità di andare oltre l’ottica dell’integrazione e valutare le persone immigrate non in base a come si adattano a un certo territorio, ma in base a come lo trasformano: «un’idea molto diffusa negli studi è che gli immigrati devono adattarsi alla società che li accoglie, che è quindi pensata come qualcosa di strutturato indipendentemente dagli individui che la compongono. L’ottica qui adottata rovescia questa impostazione: il problema che nasce è come gli immigrati rimodellano la società in cui arrivano».

La mobilità è fisiologica perché funzionale all’equilibrio sociale: uno dei fattori che ha consentito all’umanità  di diffondersi su tutto il pianeta e di sopravvivere per così lungo tempo è proprio l’attitudine delle popolazioni a spostarsi sul territorio.

La migrazione quindi è una forza positiva per lo sviluppo di un territorio, ma  la percezione attuale è di un fenomeno vissuto come eccezionale, con le caratteristiche proprie dell’esodo, dell’invasione, e a concorrere a questi dati è il modo in cui i media trattano il tema: le persone arrivate in Italia dai paesi del Sud del mondo appaiono passive, mai rappresentate e quasi mai interpellate direttamente. Una categoria indistinta insomma, che permette agli spettatori e alle spettatrici di mantenere il proprio stereotipo.

In un recente sondaggio condotto da Ipsos, sulla percezione dell’immigrazione in Italia, emerge che se gli italiani e le italiane, pensando al contesto nazionale, indicano l’immigrazione come uno dei problemi principali del paese (27%, ossia 1 su 4), la percezione crolla quando si chiede alle persone che peso riveste il fenomeno nel proprio quotidiano, identificato come un problema da 1 italian* su 10. 

Analizzare i dati e riflettere su queste dinamiche permette di imparare l’empatia, di mettere in discussione i pregiudizi quotidiani, di interrogarsi sull’esigenza stessa di guardare il mondo attraverso il filtro di pregiudizi e di stereotipi. Se da una parte infatti il concetto di stereotipo è fortemente legato alla necessità umana di categorizzare ed organizzare il mondo, dall’altra è importante imparare a contestualizzare le tematiche affrontate, a riflettere sulle storie delle altre persone, ad immedesimarsi e poter così sviluppare uno spirito critico che aiuti a saper compiere le scelte giuste.

“Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia”
Chimamanda Ngozi Adichie